lunedì 30 gennaio 2012

Guerrieri a contratto


Capita spesso di vedere in televisione dei servizi sulla guerra in Afghanistan o in Iraq dove, attorno a generali, tecnici o uomini politici, sono schierati uomini armati fino ai denti che sorvegliano con attenzione tutto ciò che li circonda. Non portano alcuna divisa o distintivo particolare: una polo sopra la quale indossano la combat vest, un cappellino da baseball, pantaloni tattici, anfibi e una lunga serie di armi e caricatori. Questi signori non sono soldati, ma appartengono alle PMC (Private Military Company) ovvero un nuovo fenomeno che popola l’ampio panorama di combattenti della guerra contemporanea. Molti di voi ricorderanno gli avvenimenti che portarono alla morte il genovese Fabrizio Quattrocchi, ricordato per il suo celebre motto “guardate come muore un italiano”. Béh, lui è morto quando era un contractor e non un mercenario come venne definito, al tempo, da molta stampa di sinistra. Ma quali sono le differenze tra un contractor e un mercenario? L’articolo 47 del protocollo 1 della Convenzione di Ginevra definisce il mercenario come una persona che: è reclutata nel Paese in conflitto e all’estero individualmente con l’obiettivo di combattere e prendere parte direttamente al conflitto armato e alle ostilità; e protagonista diretto delle ostilità; è motivato a partecipare direttamente alle azioni del conflitto soprattutto per il desiderio di guadagno personale, compenso materiale eccessivo se paragonato a quello delle forze armate regolari della nazione combattente. Il mercenario, inoltre, non ha nessuna connessione con gli Stati in conflitto. E allora? La differenza corre sul filo del rasoio, soprattutto dal punto di vista etico e professionale. In primo luogo il contractor è assunto per lunghi periodi e non necessariamente durante le guerre, spesso non prende neppure parte al conflitto, i contractor, malgrado i compensi molto elevati, fanno gli interessi di una compagnia privata e non i personali. In alcuni casi, ma sono per alcune compagnie, possono essere inquadrati e affiancati alle forze regolari. Questo è quanto recita la convenzione di Ginevra, ma poi sul campo le cose vanno diversamente. L’argomento mi è stato suggerito dalla recente lettura di un libro molto interessante scritto dal pugliese Gianpiero Spinelli, contractor e amico di Fabrizio Quattrocchi in Iraq. Spinelli racconta di un mondo fatto da professionisti ex combattenti delle unità di elite che scelgono di “arruolarsi”, previo contratto, in una delle tante PMC che si trovano ad operare sul suolo iracheno. Il giovane ex paracadutista della Folgore, insieme ad altri suoi compagni italiani, capitò in una delle migliori PMC: la “Compagnia delle Indie” la quale operava per conto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Gli italiani che fanno questo mestiere non sono molti anche perché, dopo la vicenda di Quattrocchi, si è scatenata una feroce propaganda contro questi professionisti ingiustamente definiti “mercenari senza onore”. Spinelli stesso è stato al centro di indagini e investigazioni da parte della procura e del SISMI, il servizio segreto militare italiano. La maggior parte di queste compagnie è di nazionalità americana, la più famosa è la “Black Water”, e lavorano soprattutto con ex Berretti verdi, ex Marine Recon o ex Delta. Al servizio di queste compagnie si univano poi inglesi (molto pochi, hanno le loro e operano in modo completamente diverso) francesi (ex legionari), angolani, ma soprattutto sudafricani, considerati i migliori combattenti disponibili sul mercato. Tralasciando gli avvenimenti in Iraq, Gianpiero Spinelli descrive l’ambiente dei contractor in modo pessimo, anche lui, a volte, sembra credere che in fin dei conti si tratta solo di mercenari, dotati di avidità e poco spirito di corpo. È evidente che in Spinelli sopravvivono forti e saldi i valori dell’amicizia e della Folgore, insegnamenti che riguardano più un esercito regolare e non prezzolato. Questo distinguerà Spinelli e i suoi compagni dall’orda di americani i quali, come d’abitudine, avevano la pretesa di sentirsi sempre i migliori. Forse Gianpiero, al suo debutto nella Compagnia delle Indie, doveva e voleva dimostrare qualcosa ai suoi colleghi americani, desiderava sgretolare il mito dell’italiano imbelle o – come ricordava lui – del “mandolino del Capitano Corelli” (film stupido nel quale gli italiani sono dipinti come buffi canzonieri). La sua impresa riesce, Spinelli e i suoi compagni di lavoro italiani dimostrarono presto di avere la stoffa per combattere al fianco di ex marines ed ex berretti verdi, anzi svelano di avere sicuramente qualcosa in più: i valori. Il pugliese, malgrado le sue esperienze, conservava, dunque, uno spirito da vero soldato il quale aveva l’abitudine di non lasciare nessuno indietro… NO MAN BEHIND. La protezione e la sicurezza dei suoi uomini, dei suoi compagni sono una ragione di vita! Questo lo metterà in completo disaccordo con il personale statunitense il quale si era dimostrato, in diverse occasioni di conflitto a fuoco, avido e codardo. Spinelli stesso annota alcuni fatti d’arme con grande amarezza, lui stesso si domanda se agire in certi modi non sia da mercenari: egli ammette che lo stesso direttore della Compagnia delle Indie aveva smarrito da tempo il suo status di berretto verde per trasformarsi in un avido e spietato imprenditore della guerra. Ecco la differenza tra contractor e soldati che ogni giorno indossano una divisa e combattono per una bandiera. Non sembra plausibile che anche gli stessi contractor prima di dismettere l’uniforme e firmare l’accordo siano stati soldati… e che soldati! Forse è solo il modo di fare degli americani, un po’ sbruffoni e arroganti.
Il denaro e il grande guadagno può effettivamente oscurare il principio sacro di soldato, ma Spinelli lo mantiene e questo fa di lui un combattente italiano, un paracadutista della Folgore e non un mercenario. (si legga: Gianpiero Spinelli, Contractor, Mursia, 2009).

venerdì 13 gennaio 2012

Al servizio di Sua Maestà: lo Special Air Service


La regina Elisabetta II oltre la sua colorita ed efficiente Guardia Reale dispone di uno degli eserciti migliori del mondo. La fanteria britannica, e mi riferisco alle unità fucilieri di base come ad esempio le Royal Green Jackets, è uno dei più preparati nel panorama militare mondiale. La storia di ogni singolo reggimento britannico è antichissima e custodisce grandi tradizioni; all’interno di un reparto inglese il rispetto delle tradizioni reggimentali è al primo posto tra i doveri di un soldato. Tra tutti i reggimenti di fanteria, artiglieria, cavalleria, etc. esiste un’unità di l’élite, un reparto dal quale tutte le forze speciali del mondo (ma davvero tutte, comprese quelle israeliane) traggono insegnamento e ispirazione: il S.A.S, lo Special Air Service. La sua storia ha origine nel 1941, durante il secondo conflitto mondiale, tra le sabbie dell’Africa settentrionale dove il tenente delle Scots Guards, David Stirling, decise di raggruppare alcuni uomini scelti in grado di agire oltre le linee nemiche. Lo scopo del tenente Stirling era di risparmiare vite umane e limitare gli interventi a livello di commandos infiltrati i quali fossero in grado di portare più danni possibili ai mezzi e alle infrastrutture dei tedeschi. Dopo la guerra, nel 1951, un’altra emergenza chiamò in servizio questo piccolo gruppo di soldati che si ritrovò a combattere tra la fitta giungla della Malesia. Questa volta furono ribattezzati "Malayan Scouts" e gli venne affidato il compito di pattugliare la giungla e fare proseliti tra la popolazione a favore della causa britannica.
Nel 1952 finalmente nasceva il 22° S.A.S. poi da tutti conosciuto come “The Regiment”, il Reggimento. Dal 1951 in poi lo standard addestrativo del reparto raggiunse un livello di efficienza straordinario. Nel 1959 fu organizzato il 23° reggimento S.A.S, una seconda unità di appoggio.
La guerra in Irlanda del Nord e il terrorismo dell’I.R.A (Irish Republican Army) convinse lo stato maggiore inglese ad affidare al S.A.S. di Hereford (la mitica base nell’Inghilterra meridionale) operazioni di anti-terrorismo, C.R.W. (Counter Revolutionary Warfare). Il teatro bellico irlandese era molto particolare, non si trattava, infatti, di combattere una guerra convenzionale, ma un tipo di conflitto dove l’intelligence e le capacità di infiltrazione erano più importanti del volume di fuoco già ben espresso dai reparti regolari di stanza a Belfast. Alcune zone dell’Irlanda del Nord (ad esempio l'Armagh) erano tabù persino per il Reggimento (la guerra irlandese è ben raccontata da Andy McNab nel suo “Azione Immediata”).
Il 30 aprile 1980 un gruppo di terroristi fece irruzione nell’ambasciata iraniana a Londra prendendo in ostaggio diversi diplomatici; la situazione si fece critica poiché i terroristi si dimostrarono disposti a uccidere tutti i prigionieri se l’autorità inglese non avesse acconsentito alle loro richieste. Era il momento di far entrare in azione l’unità antiterrorismo del S.A.S. (gruppo Pagoda) in quella che poi fu ricordata come operazione “Nimrod”. In pochi istanti – e davanti le televisioni di tutto il mondo – alcuni uomini vestiti di nero, dal volto coperto dalle maschere antigas, fecero irruzione nell’edificio lanciando delle “flash bang” per stordire l’avversario. L’azione durò una manciata di minuti e tutti gli ostaggi furono liberati senza alcun “danno collaterale”. Era un incredibile successo delle forze speciali inglesi.
Da quel momento in poi lo S.A.S. partecipò a tutti i conflitti mondiali in operazioni più o meno dichiarate, fino alla recente Guerra del Golfo dove hanno collaborato con i loro colleghi americani dei SEAL e della Delta Force (in realtà in numerose dichiarazioni i britannici del “Reggimento” hanno avuto parole poco lusinghiere nei confronti dei loro omologhi statunitensi: scarsamente allenati e troppo dipendenti dalla tecnologia e dai mezzi logistici).
Oggi lo S.A.S. ha cambiato sede, la mitica Hereford (descritta sempre da McNab) è stata sostituita con la base R.A.F. (Royal Air Force) di Credenhill. Il 22° reggimento è composto da un quartier generale e da diverse branche che si occupano di trasmissioni (264° SAS Signal Squadron) di Intelligence (Operational Intelligence Unit) di Ricerca tecnica e scientifica (Operations Research Cell), selezione e addestramento (Training Wing) e antiterrorismo (Counter Revolutionary Warfare Wing). Nell’organico vi è il “Sabre Squadron” composto da quattro squadroni operativi (A-B-D-G riservisti). Neanche a dirlo, ma la selezione per entrare nel SAS è durissima, aperta a tutti si, ma terribile. Il “mitico” McNab descrive con esattezza la “Fan Dance”, la lunga e infernale marcia di orientamento sulle pendici dei monti del Galles (Brecon Beacons sul Pen y Fan alto 886 metri). Il candidato può partecipare a due sessioni di selezione (invernale o estiva) e ha solo due possibilità per accedere a Credenhill. Passata la prima dura prova le reclute passano ad un lungo addestramento nel deserto dell’Oman e nella giungla del Brunei. Una volta terminate questi lunghi periodi di fatiche e di continue ammaccature fisiche e morali sei un membro del “Reggimento” e vieni destinato ad una delle quattro specialità: truppe da montagna (Mountain Troop), truppe subacquee (Boat Troop), paracadutisti (Air Troop), mezzi e tecnici (Mobility Troop).

domenica 20 novembre 2011

One shot one kill: tiratore scelto


Una celebre frase di Ernst Hemingway recitava: “ Non c’è niente come la caccia all’uomo. Chi ha cacciato abbastanza a lungo uomini armati e ha goduto di questa esperienza, da quel momento non si interesserà mai più veramente a nulla”. Questa frase è certamente rivolta ai soldati, ma in particolare a coloro che combattono una guerra silenziosa, lontano dai fragori della battaglia: i tiratori scelti. Non usiamo mai il termine “cecchino” poiché è considerato un dispregiativo; esso fu coniato durante la prima guerra mondiale dove gli Schutzen austriaci, fedeli appunto a Cecco Beppe (così era chiamato l’imperatore Francesco Giuseppe nel lombardo veneto) mietevano continue vittime tra i militari avversari. Il tiratore scelto, per il suo impiego tattico-strategico, è portato ad operare lontano dai grandi numeri. La squadra di sniper è, infatti, composta di regola da due persone: lo sniper e lo spotter (osservatore); essi lavorano fianco a fianco, in stretta simbiosi e comunque anche lo spotter è un abile tiratore. Ma chi sono i migliori tiratori scelti? A quale esercito appartengono? Nella storia nessuno può dimenticare i tiratori scelti dell’Armata Rossa (il film “Il nemico alle porte” di Annaud è un tributo a Vasilij Grigor'evič Zajcev il più famoso tiratore scelto sovietico) oppure le abili imprese della loro controparte tedesca. Ad oggi gli sniper hanno raggiunto un livello d’addestramento ottimale in pressoché tutti gli eserciti (gli italiani sono un po’ indietro, ad esclusione delle Forze Speciali ovvio!), ma la loro abilità e le loro tattiche si sono affinate grazie alla scuola del Corpo dei Marines: gli Scout Sniper.
Carlos Hathcock è stato il padre fondatore di questa scuola, il più abile tiratore scelto della storia dell’esercito degli Stati Uniti. Il suo record di tiro (2.550 iarde/2.286 metri) è rimasto a lungo imbattuto, se pensiamo poi che è stato effettuato con una mitragliatrice Browning M2 cal. 50 (cartucce BMG 50) e una semplice ottica montata sul castello, direi che è difficile a ripetersi. La storia di Hathcock è davvero incredibile e nel contempo tragica. La sua abilità come tiratore non nacque in ambito militare: da giovane frequentava i poligoni della sua città dimostrandosi subito un bravo “shooter”, soprattutto sulle lunghe distanze. Prima di essere un asso dei Marines, Carlos era già un campione degli Stati Uniti avendo vinto prestigiosi tornei in tutto il paese. La guerra in Vietnam lo portò nelle file dei Marines per poi diventare non un semplice tiratore, ma il tiratore scelto per eccellenza. In poco tempo la sua destrezza divenne leggendaria non solo tra gli americani, ma soprattutto tra i vietnamiti i quali – esasperati dalle pesanti perdite - misero su di lui una taglia di 50.000 dollari. Carlos era soprannominato “Long Tra'ng du'Kich” ovvero “il cecchino dalla penna bianca” per via di una candida piuma che portava sul suo berretto floscio. Ad Hathcock furono attribuite ben 93 uccisioni certificate, un record assoluto; lui stesso comunque non fece mai un gran vanto di essere un temibile “cacciatore di uomini”. Per Carlos si trattava di sopravvivere, ma soprattutto di uccidere un nemico il quale – se non ucciso – avrebbe a sua volta ammazzato numerosi giovani marines. Come fu nel caso di Apache, questo era il nome in codice che i marines avevano dato a una donna vietcong che catturava i soldati e soleva torturali di notte, all’aria aperta, affinché le loro urla giungessero fino alle basi americane. Hathcock riuscì a freddarla con un colpo solo…one shot one kill. La fama di Carlos tramontò durante il suo secondo turno in Vietnam: nel 1969, poco distanti da Khe Shan, il mezzo anfibio sul quale viaggiava esplose su una mina diventando un inferno di fuoco per gli occupanti. In pochi secondi il corpo dello sniper dei marines divenne una torcia: Carlos riportò ustioni gravissime sul 90% corpo ( di cui 43% di ustioni di terzo grado) venne subito evacuato e ricoverato in fin di vita in un reparto per grandi ustionati in Texas. La sua fibra e la sua volontà d’acciaio lo portarono fuori pericolo, ma non gli risparmiarono anni di dolori e atroci sofferenze dovute alle ustioni e ai continui interventi chirurgici per praticare degli innesti di pelle umana e animale. Nel 1975 la sciagura di Carlos Hathcock assunse toni irreparabili poiché gli fu diagnosticata la sclerosi multipla della quale aveva già accusato alcuni sintomi durante la sia permanenza al fronte. Fu un colpo terribile per un uomo già afflitto dal dolore! Ancora una volta la sua voglia di vivere prevalse su tutto: non appena fuori dall’ospedale volle riprendere servizio e grazie al suo eroismo (gli fu conferita la Stella d’Argento) e alla sua fama fu riammesso senza problemi nella base di Quantico. Più il tempo passava, però, più la malattia cominciava a inibire le sue capacità. Malgrado la sofferenza Carlos non smetteva di frequentare i poligoni di tiro: ogni colpo, però, era un supplizio. Nella sua biografia vengono descritti attimi terribili quando, nonostante il parere medico sfavorevole, continuava a partecipare a lunghe sessioni di tiro che gli procuravano la riapertura delle cicatrici e la conseguente fuoriuscita di sangue. A pochi anni dalla pensione, Carlos venne definitivamente congedato dal corpo dei marines: questo provocò in lui un grande senso di depressione, superato solo grazie alla moglie Jo e alla sua instancabile motivazione. La storia di Carlos Hathcock terminò il 23 febbraio 1999, quando esalò l’ultimo respiro. Una vita vissuta nel corpo dei marines per il quale Carlos aveva sacrificato tutto, anche la vita. Il padre fondatore di una delle scuole più prestigiose al mondo e che ancora oggi sforna i migliori tiratori scelti di tutti gli eserciti del mondo. L’ironia della sorte ha voluto che proprio il record di Hathcok venisse superato, poco tempo fa, non ad opera di un marines, ma grazie all’abilità di un tiratore canadese. Nel 2002 il caporale maggiore Graham Ragsdale della Princess Patricia's Canadian Light Infantry uccise un talebano alla distanza di 2.657 iarde/2.430 metri con un TAC 50.
Da chissà quale posto in cielo o all’inferno Carlos avrà messo mano al suo fucile per provare a batterlo di nuovo! (si raccomanda la lettura dell’unica biografia di Hathcock: “Tiratore scelto” di Charles Henderson, Longanesi, 2007).

sabato 5 novembre 2011

GRAZIE !!!!


La pioggia batte forte sui vetri di casa mia, non smette di piovere in questa Torino uggiosa e grigia! Non smette di cadere quest’acqua che lentamente sta ingrossando il fiume Po, un lungo serpente che è vicino al tracollo. Qui, infatti, si aspetta il peggio, ma per me il peggio è già avvenuto. Ieri la mia città, la mia Genova è stata ferita dalla forza dell’acqua e dall’incompetenza dei suoi amministratori; ieri il mio cuore andava a mille pensando a mia madre (che per fortuna era al sicuro), ma soprattutto a loro, i miei colleghi della Croce Bianca, sempre in prima linea per tutte le urgenze quotidiane. Impietrito davanti alle immagini di Via XX settembre allagata come nel 1970, a Brignole un mare di fango, per non parlare di Marassi dove il mio più caro amico ha la sua attività e la sua abitazione. Un altro amico in giro a fare il suo dovere quotidiano… il pensiero andava proprio a lui che la città la mantiene pulita, ma che contro la natura nulla può fare. Tutti i ragazzi che erano in sede…o in missione… e io senza poter fare nulla; il senso dell’impotenza è qualcosa che ti massacra. Hai voglia di scappare, di prendere la macchina e correre incontro a loro, gli amici. Ma non puoi anche perché, ragionando con razionalità, rischieresti di fare più un danno che altro. Genova era chiusa, schiacciata dal fango dei monti e dalla potenza del mare che rigettava indietro l’enorme massa d’acqua dei fiumi. Via Ferregiano: per anni sono transitato in quella via, sopra quella via… a casa del mio fraterno amico che si affacciava proprio sul letto del rio… un rio stretto, soffocato dalle erbacce e da altri tipi di oggetti non proprio figli della natura. Ora la stessa natura li ha respinti creando danni immensi. Scorrendo le foto pubblicate su Facebook (non sarò mai grato abbastanza a questo mezzo di comunicazione) vedo un’immagine di un’ambulanza schiacciata contro altri mezzi… è proprio una delle nostre, la 276 sulla quale sono salito mille volte. Ho pensato a coloro che erano dentro l’abitacolo, ma per fortuna sono subito stato informato che stavano bene e che le loro ferite si limitavano al gran spavento. Vedo ancora Via XX settembre e mi blocco sulle vie laterali e in particolare Via Cesarea dove ho lavorato per un anno… e sempre quell’anno ho vissuto personalmente una semi alluvione. Adesso quelle stesse stanze che erano sopravvissute e che avevo asciugato con cura… erano completamente sparite, inghiottite dal fango. Scorro ancora le foto e vedo Corso Torino… anche li ho qualcuno… i miei ex colleghi della redazione i quali sono riusciti a mettersi in salvo appena in tempo. E io fermo… immobile… prigioniero del destino che mi ha voluto lontano da casa, dai miei amici. Qui a Torino con il corpo, ma a Genova con l’anima, il cuore e il pensiero. Il pensiero fisso su quelle uniformi arancione che viaggiavano in mezzo alla gente e si mescolavano fra loro. Uniformi arancione che non smettono mai di lavorare, che non si arrendono, che sanno cosa è il dolore e la paura, ma la governano. Ragazzi qualunque, senza età, senza particolari doti da superman.. gente comune che decide di alzarsi la mattina e dedicare qualche ora del suo tempo agli altri. Una forza interiore che da sola fermerebbe il corso di mille fiumi… e così hanno fatto. Si perché loro lo hanno fatto… ciascuna divisa rappresentava un baluardo contro il dolore, una mano sicura verso chi non ce la faceva. A loro, ai miei amici, colleghi, come i fratelli di un unico “reggimento” di pace, a tutti coloro che hanno lavorato per la mia città va il mio commosso e sentito GRAZIE. Questa è l’unica Italia che amo, che voglio vedere e che morirei per difendere.

mercoledì 26 ottobre 2011

Forze davvero speciali


L’esercito più numeroso e meglio equipaggiato al mondo è sicuramente quello degli Stati Uniti il quale dispone di una potenza di fuoco ineguagliabile (anche se in questo ultimo periodo ha dato alcuni segni di cedimento). I soldati più esperti e preparati sono certamente quelli europei, in particolare gli appartenenti all’esercito di Sua Maestà Britannica, comprese le loro forze speciali, i mitici SAS o SBS. Ma su tutti esistono dei soldati i quali per una particolare circostanza della storia sono stati abituati al combattimento sin dalla loro nascita; sono i soldati migliori al mondo sotto tutti i punti di vista, compresi quelli negativi. A loro, i soldati dell’esercito israeliano, spetta il primato di combattività mondiale. Il livello dei semplici soldati di fanteria (Brigata del Golan o altre brigate meccanizzate o corazzate) è superiore alla media di qualsiasi soldato al mondo. I soldati israeliani, infatti, non solo si addestrano quotidianamente, ma combattono quasi ogni giorno (ed è corretto dire spesso non ad armi pari). Questo post non è politico, non può e non vuole entrare in questioni delicate come il conflitto con i palestinesi i quali, mi auguro per la comunità internazionale, ottengano presto il riconoscimento dei loro innegabili diritti. Tuttavia non stento a provare una certa ammirazione per Israele poiché è l’unico Stato in cui le parole “minaccia” e “terrorismo” hanno assunto una dimensione tale da diventare la prima preoccupazione per tutti i cittadini.
All’interno delle forze armate (in ebraico viene usato l’acronimo “Tzahal”) sono inclusi diversi reparti speciali i quali alcuni operano in collaborazione con l’esercito, ma anche in operazioni segretissime che non prevedo l’utilizzo della forza regolare.
Il primo reparto che mi viene in mente, forse il più famoso, è l’S-13 ovvero lo Shayetet 13 assimilabili ai Navy Seal della marina americana, ma molto più preparati. Non appartengono all’esercito, bensì alla marina e sono divisi in tre compagnie (in ebraico palga): assaltatori, subacquei, e reparto di superficie (si occupa principalmente dei mezzi e della logistica).
Come per tutte le forze speciali israeliane tutti coloro che aspirano a entravi devono superare il temibile gibush che include 4 mesi di preparazione basica di fanteria, 2 mesi di addestramento avanzato e 3 settimane di corso paracadutismo con specializzazioni quali l’HALO e l’HAHO. Il gibush è davvero un periodo allucinante, le prove di resistenza fisica conducono alla soglie del decesso anche se gli istruttori sanno di non dover superare un certo limite. Per avere un’idea di quello che aspetta un aspirante operatore delle SF israeliane basta leggere il bellissimo libro di Aaron Cohen “Fratelli guerrieri” così da farsi un’idea di quanto sia difficile superare anche un solo giorno del famigerato gibush. Una volta passata la terribile selezione i marinai israeliani accedono effettivamente al reparto e vengono trasferiti alla base navale di Atlit per un altro periodo di esercitazioni, questa volta strettamente legate alle attività degli incursori di marina dove si diventa dei provetti sommozzatori e ottimi sabotatori.
Dopo gli incursori della marina, l’IDF (Israeli Defence Force) e in particolare il settore dedito all’Intelligence dispone del Sayeret Matkal (tradotto in ebraico: Unità di Ricognizione dello Stato Maggiore) la cui vocazione sono le missioni in profondità e di antiterrorismo. Tra i suoi compiti principali ci sono anche il recupero ostaggi in territorio ostile. Tra il loro palmares (per la maggior parte segreto) troviamo la famosa operazione Thunderbolt del 1976, la liberazione degli ostaggi a Entebbe nella quale perse la vita Yonatan Netanyahu, fratello del premier Benjamin “Bibi” Netanyahu. L’addestramento non differisce molto da quello dell’S-13, tuttavia i membri del Matkal devono superare ancora 5 settimane di corso antiterrorismo. Sono specialisti nel CQB (Close Quarter Battle), nella liberazione di ostaggi e in compiti più strettamente tecnici come la raccolta di informazioni, intelligence e altre specializzazioni “psicologiche”.
Tra le unità israeliane realmente segrete vi è il Duvdevan che letteralmente in ebraico significa “ciliegia” ad indicare la vera specialità di questa unità davvero molto peculiare. Gli elementi del Duvdevan percorrono lo stesso iter formativo delle altre SF tuttavia al momento di prendere servizio devono affrontare un ulteriore periodo di formazione che li trasformerà in una delle unità antiterrorismo più preparate e spietate al mondo. Essi sono addestrati ad operare in modalità mistà aravim (ovvero “alla maniera degli arabi”) nei territori occupati; gli operatori israeliani si muovono, parlano, vivono come i palestinesi, si confondono con essi ed entrano in azione improvvisamente senza troppi preavvisi. Informazioni ulteriori sono impossibili da reperire poiché risultano coperte da segreto.
Ogni unità di fanteria dell’esercito d’Israele è da considerarsi d’élite per le questioni che ho indicato in precedenza. Questa forte attitudine alla guerra porta sicuramente uno scompenso notevole nella società la quale vive una costante presenza dell’esercito nella vita quotidiana. Questo però trova una giustificazione in quello che accade quotidianamente sulle strade di Gerusalemme: gli attentati dinamitardi dei fondamentalisti palestinesi (e faccio notare che li distinguo da chi, tra i palestinesi, non è minimamente sfiorato dall’idea di farsi saltare in aria…. e il mio ottimismo mi induce a pensare che siano molti), i rapimenti e i missili rudimentali sparati da Hezbollah.